Il paradosso della ‘cecità’: le ‘terzine’ erotiche di Renzo Ridolfi

Nov 26, 2011 by

di Ugo Magnanti

Parlare di cecità, e dunque di buio, in riferimento al lavoro di un fotografo, potrebbe sembrare paradossale, considerando che l’etimo della parola ‘fotografia’, come si sa, richiama il concetto di scrittura, o di disegno, che si realizza attraverso la luce; ma nondimeno è ciò che si può essere portati a fare riguardo ad Amnios, di Renzo Ridolfi, 4 allucinate ‘terzine’ fotografiche in bianco e nero che traggono la loro vitalità artistica proprio da una natura cieca, intesa non solo come diminuzione di vista, ma anche come offuscamento di ragione.
È infatti la rinuncia allo sguardo nitido e razionale sul soggetto immediato, prossimo, sensibile, attraverso la scomposizione indistinta di forme quasi inghiottite dal loro stesso alone, dalla loro stessa aura, a rendere questi scatti capaci di una percezione ulteriore sui frammenti di un’umanità sempre sull’orlo del disfacimento, e dunque del ripudio e del buio, ma sempre toccata in extremis da una scintilla ‘sacra’ che induce alla condivisone di una comune appartenenza.


Per quanto queste immagini siano mediate da una verità interposta, quella dello schermo, ciò non implica per Ridolfi la rinuncia completa ad interpretare il dato fotografico nudo e crudo, negando per questo al proprio occhio, o anche alla propria storia, una realtà diretta; né, d’altro canto, ciò può significare l’abdicazione alle autonome possibilità comunicative dei soggetti.
Si tratta piuttosto di una scelta ‘amorale’, che evoca la sessualità quasi attraverso uno stereotipo erotico mai esercitato fino in fondo, e che non può non accogliere in sé un germe di provocazione, poiché ciò che dovrebbe per moralismo appartenere a una zona d’ombra del corpo, a un suo esercizio ‘perverso’, non coincide col decadimento che costituisce l’anima della contemporaneità, proprio grazie a una poetica che tende, in questo caso, a rigettare la dimensione etica dell’arte fotografica.
Nel concepire questo lavoro, sembra che Ridolfi abbia ricevuto una certa attitudine a ricercare l’invisibile, a presagire qualcosa che superi l’immagine, quasi nei termini di uno svelamento sfuggente della sua ‘cecità fotografica’.


Ridolfi sembra evocare il mito di Tiresia, ma a differenza dell’uomo reso cieco dagli dei, egli non separa col suo bastone, per disgusto del sesso esibito, i due serpenti che copulano, ma al contrario respinge ogni colpa dello sguardo, e ogni angoscia di infrazione dei tabù visivi che ancora permangono in una società tuttavia dominata dalla rappresentazione.
In questo senso Ridolfi ha già operato con altri lavori centrati sul tema della malattia e della morte. E in fondo, al di là del facile accostamento tra eros e thanatos come forme di inesauribile forza, che pure è dato di percepire in certe sfumature e in certi frangenti delle ‘terzine’, in cui emergono chiare allusioni al dissolvimento e alla corruzione del corpo, qui come in altre occasioni Ridolfi sembra voler resistere alla rimozione profonda di sesso e morte, e dunque, alla rimozione delle nostre primarie inclinazioni.
I soggetti raffigurati, oltre a corrispondere all’approccio ‘cieco’ del fotografo, ponendosi con la stessa modalità, evidente nella disposizione degli occhi, sempre chiusi, promettono, ovviamente, la stessa misura priva di etica anche in merito alla natura che esprimono.
La caratterizzazione femminile, per quanto evanescente, dei soggetti studiati nelle curvature, negli spiragli, nei margini, e l’orientamento contemplativo, a volte quasi ammirato dell’obiettivo di Ridolfi, riconducono ancora al mito di Tiresia, e alla sua malaccetta metamorfosi da donna a uomo (dopo essere già stato trasformato una prima volta da uomo a donna), quando oramai considera con favore la sua nuova condizione femminile, anche per aver appurato che il piacere della donna durante il sesso è dieci volte maggiore a quello dell’uomo.
È la medesima trasformazione mitica, rifiutata per le stesse ragioni, e in questo caso scongiurata, che viene prospettata a un personaggio del poema epico indiano Mahàbhàrata.
Nell’intento certo inconsapevole di indagare il mistero che si cela dietro questa rivelazione sconvolgente del mito, e che è ancora, nelle sue diverse implicazioni, una inquietudine estesa e turbativa della fragile psicologia maschile, sta il desiderio di conoscere, di colmare una lacuna, di trovare un linguaggio condiviso, che è la cifra distintiva del percorso di Ridolfi, e che custodisce, in fondo, la pienezza e il fascino di questo originale lavoro fotografico.

http://www.renzoridolfi.it/

 

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