La poesia, la polvere, e l’onore, secondo Benassi
di Ugo Magnanti
Vi è un respiro assiduo e regolare, un alone, una pulsione lucida, quotidiana eppure epica, nella poesia di Luca Benassi. Una presenza che fermenta sul fondo delle parole, e che si addensa in motivi coerenti, in un racconto frantumato da una disomogeneità di luoghi, figure, epoche e contesti, ma sempre ricomposto da uno stile sicuro, da una corrispondenza fra il proprio percorso umano e la propria ricerca poetica.
La scrittura di Benassi vive di ombre e di riflessi, e di quelle intime lacerazioni che fervono nella natura stessa dell’atto poetico, e che si stagliano sull’esercizio della poesia, o sul senso dell’essere poeta, in una personale e misurata inquietudine, offerta alla decadenza dei tempi presenti.
Ma è anche una scrittura che si nutre di vita, di un’incantata ovvietà quotidiana, perfino quando il mito e la letteratura appaiono preminenti; una scrittura che riesce a proiettare sfumature segrete su tutto quello che guarda, e, a tirar fuori una storia da tutto quello che tocca, per rifarsi alla citazione andersiana posta da Benassi in esergo alla sua raccolta L’onore della polvere.
Soprattutto nei testi di questa raccolta, l’incessante dono della realtà, continuamente sottoposto al rigore di uno sguardo disincantato e tuttavia lirico, si mescola a una riflessione mai invadente, ma sempre assillante, sulle ragioni della poesia, e soprattutto sul significato degli esseri chiamati ‘poeti’.
Benassi marchia le adiacenze tra i segni del presente e le urgenze meta-poetiche, col fuoco del mito crudele di Marsia. Il poeta è destinato a perdere la sfida della contemporaneità, in un luogo dove la poesia appare inutile, priva di valore, rimossa da una attualità irresponsabile, e segnata da inesauribili distanze, o meglio, da una rassegnata alterità rispetto a quei contesti razionalistici e utilitaristici, che in un modo o nell’altro, ne favoriscono il declino, o la presunta fine.
Uno dei simboli più toccanti di questo smarrimento rivelato da Benassi è il flauto: quello di Marsia, “fatto di occhi”, “minuscole galassie”, “buchi neri”, “gocce di latte”, capace della disperata precisione del “tuono” e del “… fruscio della foglia / che si stacca dal ramo; e ancora, i flauti evocati in un frammento de L’onore della polvere attraverso “le ossa vuote” che “soffiano” al vento. Sono le ossa della nudità e della fragilità del poeta, di colui che, come nel Flauto di vertebre di Vladimir Majakovskij, “… suonerà il flauto / sulla sua colonna vertebrale”, per manifestare la propria esistenza usurata, e perfino, la propria mancanza “… di un petto / su cui attaccare la medaglia”, come racconta Benassi, in un disfacimento del poeta, anche materiale, che riporta alla mente un misterioso brano del poema neogreco Il flauto del Re, di Costis Palamàs, in cui uno scheletro regale, rinvenuto con un misterioso flauto in bocca, simbolo di poesia, si dissolve al tatto di chi lo tocca.
Nella rappresentazione del poeta, il ribaltamento della formula montaliana, quella del Non chiederci la parola, che per Benassi diventa “solo questo sappiamo: chi siamo e cosa vogliamo”, si gioca sul limite fra registro ironico ed estremo tentativo di riaffermare una plausibile esistenza della poesia fra le “rovine” delle “nostre città”, dove ormai nessuno si sogna più di domandare verità universali e definitive a nessuno, e meno che mai alla poesia, tanto che uno dei soliloqui di Benassi, in cui si allude al ruolo vaticinante del poeta nella decifrazione del mondo, sembra pronunciato davanti a uno specchio, davanti a un proprio doppio, in un isolamento assoluto, nel quale sono i pensieri del poeta stesso a generare le inverosimili recriminazioni degli esseri altri. “Non dite infine che serve una metafora / a spiegare il traffico, i cocci aguzzi sotto le ruote / e la notte guasta di amori infecondi. / E poi non accusate noi poeti / di non avervelo detto / e di non avervi ascoltato.
Ma per Benassi questa disfatta contemporanea della poesia non si compie supinamente, senza che sia la polvere stessa, elemento che allude alla terra, al basso, alla scoria, a tentare l’onore di un riscatto, con la sua attitudine a battezzare la marginalità e la non conformità della poesia, quasi con un gesto di orgoglio, con una amara e sottile separazione che ci parla dell’ostinata difformità, ma anche appartenenza, del ‘poetico’ rispetto al ‘reale’. È per questo che la poesia abita la polvere, ed è per questo che il poeta diventa addirittura il vetro che ama la polvere, per la sua vocazione a far trasparire quell’essenza sconfessata da una contemporaneità in cui, nondimeno, tutto in fondo è polvere, anche i cocci aguzzi ‘montaliani’, destinati a sgretolarsi, ad essere schiacciati, a divenire anch’essi polvere, appunto, ma polvere a cui si nega l’ordinaria facoltà di ricevere la scintilla di ciò che si cela dietro le cose visibili.
Ugo Magnanti
IO SBAGLIO SEMPRE
Io sbaglio sempre
e forse dovrei tenere un segno
acceso nella carne come un faro
inciderlo sulla mano, una croce
una lettera indecifrabile
dell’alfabeto del dolore
che dica il qui e l’ora
dei miei sbagli:
tu lo sai, mi perdo
(o ci perdiamo entrambi
-ci perdiamo tutti)
smarrisco la via
della quiete
che conduce al bacio
lieve del ritorno.
(Luca Benassi, da “I fasti del grigio”, Edizioni Lepisma, Roma, 2005)
MARSIA (FRAMMENTO II/V)
Hai ceduto alla lusinga dei fonemi, ai sestanti
coraggiosi disegnati nella polvere, ai libri
senza ordine sugli scaffali inaccessibili.
Hai disegnato la geografia e firmato accordi
per regolare il tempo del perdono.
Ma la sfida di questo tempo
è una barca sullo Stige e la moneta
che paghi il silenzio di Caronte
è senza faccia e iscrizione.
(Luca Benassi, da “L’onore della polvere”, puntoacapo Editrice, Novi Ligure – Alessandria, 2009)
LE NOSTRE CITTÀ SONO ROVINE
Le nostre città sono rovine
di epidemie passate e guerre ancora da combattere.
Al vento le ossa vuote soffiano come flauti.
Stateci lontano, non siamo guerrieri
o buoni difensori e non cerchiamo gloria di lapidi.
Abbiamo perso idee nei campi
e fogli già scritti sulla scogliera al limitare del bosco.
Chiedete agli zingari
o ai pastori. Manchiamo di un petto
su cui attaccare la medaglia.
(Luca Benassi, da “L’onore della polvere”, puntoacapo Editrice, Novi Ligure – Alessandria, 2009)
SEGUENDO I TETTI E LE STRADE BRULICANTI
Seguendo i tetti e le strade brulicanti
i vestiboli con i kebab, gli androni verdi, scritti
in lingue remote, si comprende
il verdetto, la sentenza in versetti lineari.
Aspettiamo nella rete che si tende
la mattanza rossa, il sangue che lavi
i marciapiedi, le muffe piene di mosche
il futuro sterile dei figli. E a te che calchi
questa crosta e il foglio e pascoli tranquillo
i delta, i fiumi della case, le mogli attente e infedeli
i lavori battuti al minuto, il sesso dei monitor
che riduce il membro a un nervo scoperto come un filo
a te che imbocchi come un pesce la metro
e incappi la rete del mistero
a te che rantoli quando la lama esce e il sangue
gorgoglia nel polmone sfondato
quando la tregua e gli accordi vengono violati
a te, poeta, si concede l’onore della polvere.
(Luca Benassi, da “L’onore della polvere”, puntoacapo Editrice, Novi Ligure – Alessandria, 2009)
Pubblicato su “L’Eco del Litorale”, numero 4, ottobre 2011.