Francesca Farina su “DI ALLEGORICO MIELE. RAPSODIE SARDE” di Ugo Magnanti

Mar 28, 2017 by

“DI ALLEGORICO MIELE. RAPSODIE SARDE” di Ugo Magnanti, FusibiliaLibri 2016.

Roma, 18/3/17

lettura critica di Francesca Farina

 

Partiamo dal titolo. Il titolo in ogni opera è come una porta che ci introduce alla casa di parole eretta dall’autore, in questo caso un poeta. Notiamo subito il richiamo ai tre fondamentali volumi che, nel corso della metà del Novecento, hanno presieduto alla diffusione del mito della Sardegna nel cosiddetto Continente, il primo, apparso nel 1952, ossia “Sardegna come un’infanzia” di Elio Vittorini, il secondo “Miele amaro” di Salvatore Cambosu, nel 1954, il terzo esattamente dieci anni dopo, nel 1964, ovvero “Tutto il miele è finito” di Carlo Levi. Certamente Ugo Magnanti, che con questo volume dà prova del suo amore verso l’Isola bella e sfortunata, una volta di più, dopo la gloriosa impresa della Bicy-nuragica, da lui ideata e condotta, ha tenuto presenti i tre titoli e se ne è servito per formulare il proprio, sicuramente molto pregnante e significativo. Che cosa intende il poeta con l’espressione “Di allegorico miele”? Probabilmente, e lo vedremo leggendo le sue straordinarie poesie, davvero fuori dall’ordinario, inframmezzate dalle rapsodie, brevi testi, composti da appena qualche frammento, numerati da uno a sedici, quasi aforismi, che riportano quindi a una forma pressoché primordiale di scrittura, quella non ancora codificata secondo metri, rime e versi, ma come nata nella bocca del rapsodo e immediatamente stesa sulla pagina – probabilmente, dicevo, riprende quella intensa metafora presente nella parola miele (e nei titoli dei tre autori Vittorini, Cambosu e Levi) a significare, esaltandola, la dolcezza estrema del vivere nell’Isola, ma anche la paradossale amarezza che sembra insita nella “demoniaca tristezza” della Sardegna, come ha scritto ne “IL giorno del giudizio” Salvatore Satta.

Questa tristezza o malinconia deve essere legata alla nostalgia eterna, ancestrale di quanto abbiamo perduto, noi sardi e il mondo, perdendo l’inimmaginabile bellezza di una terra che da 70 anni a questa parte ha subìto una delle più grandi mutazioni antropologiche della Storia, con le foreste rase al suolo o bruciate, i villaggi spopolati dall’emigrazione, le coste deturpate da milioni di metri cubi di cemento, la disoccupazione più crudele, la cancellazione della stessa lingua-madre e della cultura secolare. Alieni da ogni lamentazione, i sardi si guardano bene dall’apparire in TV o nelle manifestazioni, se non in casi estremi, a chiedere che i loro diritti alla tutela del suolo, dell’acqua e dell’aria, del lavoro e del millenario patrimonio immateriale siano salvaguardati: preferiscono con grande dignità stringere i denti e andare avanti, nelle più acerbe sciagure. Avviene però talvolta che qualcuno raccolga dai loro occhi storie, sguardi e sentimenti e se li porti al cuore e li trascriva poi su una pagina, come è accaduto in questo caso, col libro di Ugo, che dimostra di aver compreso profondamente la terra e l’anima di un popolo, che ha fatto della ritrosia e dell’integrità morale un costume.

Grazie alla potenza formidabile e straniante delle metafore, alla vertigine che quasi ci coglie leggendo i versi, che sembrano contraddirsi tra loro, o richiamare ad ogni passo oscuri significati, pressoché magici o mistici addirittura, di poesia in poesia e di pagina in pagina, Ugo spiega un itinerario poetico singolare, come fosse un tappeto coloratissimo, uno di quei tappeti che le donne sarde di una volta tessevano nei paesi, fatto di strisce pluricromatiche. Ogni striscia di tessuto sembra corrispondere a un verso, ogni verso a una striscia, a un colore, a un senso. Sin dalla poesia in apertura è il poeta che chiede spiegazione, che si mette in ascolto dell’anima segreta dell’Isola, che vuole accedere ai penetrali del tempio della Natura da profano e conoscere il Dio che si cela nella tabernacolo più intimo e nascosto. I materiali di cui dispone si accumulano, verso dopo verso, accatastandosi a formare montagne di significati; così in questo repertorio poetico entra l’intero mondo di parole, oggetti e sensazioni che danno di una realtà la sua più profonda essenza.

Se è vero che la poesia è resistenza al facile, di frase in frase e di rapsodia in rapsodia si accresce il senso e ogni cosa diviene a mano a mano più vera: colline, fiumi, piante, riti e stagioni, la luce e il silenzio, suoni e cromie sempre uguali e sempre diversi compongono un quadro frantumato e significante. Così a cominciare dalle prime rapsodie, si va dall’indagine sul miele alle terre del Sulcis, dalla morte per acqua di Sergio Atzeni, annegato nel mare dell’Isola di San Pietro (e che, come ricorda Ugo in una delle coltissime note, richiama alla mente un altro illustre annegato, il poeta Shelley, che morì in Versilia, nell’estate del 1822), al lago artificiale di Monte Pranu (progetto che si rivela un fallimento, come ogni opera artificiale in una terra che è tremendamente autentica in ogni sua manifestazione), alle fontane dei paesi (tra cui Su Cantharu di Bitti, presso cui sono nata) accanto alle quali si celebra inconsciamente il rito antichissimo dell’adorazione della Dea dell’Acqua.

Si passa quindi, procedendo nella lettura, dalle pietre della sesta rapsodia, dove si ricordano Pinuccio Sciola, che come Orfeo incantava (e faceva letteralmente cantare) i sassi, e Giò Pomodoro, che ha dedicato le sue sculture a Carbonia e ad Ales, patria di Antonio Gramsci, alla settima dove troviamo i “bracieri del Campidano”, perché il sole vi picchia inesorabilmente nelle interminabili estati sarde (immagine che sembra quasi richiamare l’ “Incudine del sole”, di cui parla Lawrence d’Arabia nei “Sette pilastri della saggezza”) e dove si perde o si ritrova la memoria di Eleonora d’Arborea e dove il fiume Tirso si scava un letto da un milione di anni. Tutto è così prezioso e unico, come le stelle, come le piccole pietre d’ossidiana nell’ottava rapsodia, trovate a Villa Verde, in Marmilla, e ogni creatura è legata ad altra creatura, ogni evento ad altro evento, come nella nona rapsodia, in cui il poeta rievoca un calciatore d’altri tempi con echi non soltanto delle poesie di Umberto Saba, dedicate al gioco del calcio, ma anche al romanzo di Sergio Atzeni (lo scrittore già commemorato) dal titolo “Il quinto passo è l’addio”, specie al 6° verso della terza strofa, quando si cita “nessuno scelse/ il suo passo/ successivo”, che sembra quasi una risposta a quel titolo; ma pure si riferisce, come ancora sottolinea in nota Ugo, a un affresco di una chiesa di Bosa, dal suggestivo titolo “L’incontro dei tre vivi e dei tre morti”, il quale probabilmente allude a una delle tante leggende sarde legate al mondo dell’oltretomba, assai suggestivo e inquietante.

Non vengono certo trascurate le feste, veri cuori della vita popolare sarda, pause nella pena dei giorni, come quelle, molto diffuse in tutta l’Isola, in cui si accendono grandi fuochi in onore di Sant’Antonio abate, falò che richiamano antichi riti che spingono alla danza, all’uso dei secolari costumi, come nella decima rapsodia, ma all’opposto, nell’undicesima rapsodia, si erge la modernità del telescopio sul Monte Armidda, uno dei più grandi d’Italia, posto a 1100 metri d’altitudine nell’osservatorio astronomico pubblico, intitolato a Ferdinando Caliumi (di cui ben pochi sanno). Si procede così, in questo vortice di immagini che riportano echi di eventi vissuti o sognati, come il carnevale di Lodine della dodicesima rapsodia, o la scoperta nella tredicesima dello spazio sacro dedicato alle ninfe a Fondorgianus (l’antica Forum Traiani, sempre secondo le dottissime note dell’autore, quasi un libro nel libro) ovvero, avvicinandoci alla fine di questo itinerario nella natura, nella storia, nelle parole della Sardegna, alla quattordicesima rapsodia, dove emergono le immagini del paesaggio, i gesti dell’artigiano e del poeta, (cito) “uno sperpero di luce/caduto come qualsiasi luce”, sottolinea lo stesso, e i monumenti millenari, le Tombe dei Giganti e i Nuraghi, “schegge eterne” nel tempo che travolge tutto in questa inconoscibile “terra del mito”, che l’autore abbandona lasciandosi alle spalle Tavolara, con la promessa di raccontare ancora l’inesausto, inesauribile mito dell’Isola perenne.

Ci lascia, il poeta, con le immagini incantevoli che “piovono dentro” e si fanno ricordare, grazie alla sapienza quasi da rabdomante della parola, che ha profuso in ogni singolo verso di questa poesia tutt’altro che semplice, da leggere, comprendere e meditare, poesia dai significati labirintici, in cui è facile perdersi se non si possiedono un’estrema sensibilità, una raffinata cultura, una mente aperta a cogliere i sensi più nascosti, le emozioni più profonde.

Noi lo ringraziamo, perché ci ha fatto dono di un libro davvero raro, in questi tempi in cui si stampano troppi testi, il più delle volte banali, che non lasciano tracce e ci rendono scontenti e forse peggiori di come eravamo prima di leggerli. Questo ci rende migliori e più ricchi nel cuore.