Francesco Di Giorgio legge “Rose e detriti” di Letizia Leone
Alla prima lettura di questa nuova Erodiade ci si sente fuori sesto rispetto al titolo. Dove sono i detriti? Viene naturale pensare a detriti di rose. La seconda lettura ci conferma e ci viene di dire, ma non vorremo parafrasare un grande poeta, detriti in forma di rosa, o meglio ancora, a dirla tutta, rose in forma di detriti. Si, perché è di rose che qui si tratta, rose sbriciolate, rose decolorate, rose avvizzite, frantumate, scompigliate, grattugiate, rinsecchite ma mai rose nullificate, e se ciò che solo è solo il detto, è di rose il detto di cui qui solo si dice e l’essere è solo di rose.
Dove sono allora i detriti, questo nulla metamorfico di rose, uniche agenti in quanto agite dalla storia e ridotte a quella frantumazione che le costringe a nuove forme sempre assoggettate con “...unico conforto questo velo/nero sul crimine”. È proprio questo velo che le separa dal mondo di spettri fissati, magistralmente da Letizia Leone, in questa Erodiade, nell’inazione di gesti non-gesti topicamente eterni.
Ed è il topos del mito, ciò che sappiamo che non è stato ma che sappiamo che già è stato, perché fissato per sempre nella nostra coscienza in quanto ciò che è in tanto è in quanto è stato, a guidarci alla comprensione del testo attraverso l’intreccio diadico dei personaggi.
È tutto un gioco di rimandi e di coppie
Ecco Elia il non-morto, il profeta del silenzio, presentarsi accanto ad Orfeo, la voce dei morti, “in quest’aria irritata di umori/ che risucchia i morti da chissà dove/ e li fa ancora parlare”, ed Elia (ma forse che Elia non è anche il Battista?) parlerà con la voce di Orfeo “poeta e profeta insieme” che se ne va “con la testa mozzata sotto il braccio” a dispiegare la conoscenza “con la voce di uno che grida nel deserto”, e allora Orfeo è anche il Battista, quel Battista, come Orfeo decollato, che dal piatto d’argento continua a scagliare profezie con quella testa voluta mozza da Erodiade “fatta pazza di onesti furori”, quegli stessi furori dai quali invasate le donne di Tracia fecero strazio di Orfeo, affidando la sua testa alle onde del fiume Ebro e se la Tracia sarà condannata al castigo della pestilenza, simbolo per eccellenza della putrefazione, Erode, mentre “le sentinelle scappano […], cedono il passo agli invasori”, striscerà “fino a toccare con la testa il pavimento” per spiare la testa mozza del Battista e fissare lo sguardo “sui chicchi putrefatti di melagrana tra i denti”.
È qui che sono i detriti: sono le teste mozze dei profeti, veri o falsi che siano, profeti di tutti i luoghi e di tutti tempi, sempre legati al potere e pronti a farsi essi stessi potere; sono gli Erode, il potere più crudo e volgare, incapace di esistere in assenza del Battista, e di quello nel suo opposto non per nulla doppio speculare; sono i “soldati…/ immobili nelle armature/ cani da guardia pazzi d’eccitazione”; è tutto un armamentario di imbestiamento totale “davanti a quest’orda/ che festeggia il delitto”, detrito di detrito e null’altro.
Cerchiamo allora le rose: dobbiamo cercarle nell’altro universo, ma può essere l’eterno femminino fatto solo di rose? Può esserlo la “fanciulla sfatta che s’invola/ sulle gambe, leggera Salomè/ che ha voluto così/ prima uccidere il poeta e poi il censore”? Può esserlo Erodiade “La falsa!/ Si presentava con un amore casto/ per cullare le ossa/ all’uomo straziato dal buio e dalla fame”? Oppure tutte, asessuate dalla “disgustosa astinenza del profeta”, o fatte cosa, “donne mitologiche/ figlie dello stupro”, nel quotidiano riproporsi del festino orgiastico, sono comunque succubi di quell’universo imbestialito che le costringe a placarsi con “un bacio spudorato/ sulla bocca glaciale di un morto”, o a sollazzarsi “nelle carceri/ tra il fetore insopportabile dei condannati”?
Allora la rosa è una e una sola, è “la puttana di fila che accompagna/ Erodiade, ingolfata nei veli/ fiammante femmina sguaiata/ che in silenzio latra…” è colei che sa che bisogna piegarsi, che bisogna godere “tra fetori,candele/ gocce bollenti di cera luminosa”, che avrebbe “preferito lo spettro dal capo mozzo” e per questo può conservare nel petto le rose, il loro sangue e colore “in questa festa buia della lussuria”, consapevole che “… ad un imperatore/ ci si deve immolare senza spine/ augurandogli buon divertimento/ fiere del nostro strazio”. L’agnus dei sa che “sarebbe più doloroso resistere/ e allora mi concentro sui fiori/ sul loro sfacelo” e per questa via riscatta tutte le Salomè, tutte le Erodiadi, e quell’Erodiade che coglierà “il fiore, inaspettato nel fango/ un profumo infantile, forse un crampo/ di piacere”, e potrà, contro “le carezze/ che arrivano dalle fogne”, in un’ansia estrema di liberare “le rose legate”, prorompere in un grido di rivolta: “Mie ancelle, vi prego, tornate tutte da me”. È così che la Schiava, la prima rosa, si fa rosa per tutte e tutte, oltre le differenze di stato e di classe, trasforma in rosa: “Mia regina/ abbracciamoci/ (se ti sono sorella…)/ ritiriamoci nelle nostre stanze/ che qualcosa ho salvato/ qualcosa di un fiore stremato”.
È in questo abbraccio sororale che ci piace rinvenire il senso di questo testo, il topos metastorico e insieme di contemporanea ribellione, che ci pone di fronte ai drammi eterni della condizione umana, fra i quali troneggia come un fiore schernito e calpestato, la condizione della donna, schernita, calpestata e umiliata in ogni parte del mondo, rimandando, attraverso la mediatica orgia televisiva di troni e tronisti, noi del primo mondo, ad altri mondi creduti terzi, quella condizione che sempre più ci appartiene quanto più l’urlo, creduto liberatorio, si fa inconsapevole belato.
Notizia su Francesco Di Giorgio
Francesco Di Giorgio è nato a S. Agata di Puglia (Fg) nel 1952, risiede a Roma dal 1956. Ha pubblicato le raccolte: Il sogno e il risveglio (1981), La morte del gallo dipinto” (1983); Infinitesimale (1989, più volte rappresentato), il poemetto Allucinazioni in penombra” (1999) e A ricercare Dice, Lepisma Edizioni (2014).