Giacomo Cerrai su “Riguardo all’obbedienza” di Dona Amati

Lug 14, 2014 by

Dona Amati – Riguardo all’obbedienza – Poesie dal corpo, FusibiliaLibri 2013
Fusibilia_Cover_Riguardo all'obbedienza 8 agosto solo primaScrivevo tempo fa, a proposito di testi di un’altra poetessa, che il corpo è ormai da tempo un topos nella poesia femminile contemporanea, dapprima come riappropriazione, poi come emblema di una nuova visibile fisicità, poi come nuovo terreno di disagio e luogo in cui si incrociano ancora problematiche irrisolte, problematiche anche, aggiungerei oggi alla luce della cronaca, estremamente drammatiche. Aggiungo anche che il corpo, come oggetto o luogo metafisico o appunto topos, sia appannaggio pressoché esclusivo della poesia delle donne è incontestabile. Ma escluderei che questo (all’interno della già abbastanza astratta “poesia Femminile”) ne faccia una poesia di genere, semmai un terreno su cui le donne, se non fanno poesia “mise en scène”, si muovono più agevolmente. Tutto questo è vero, ma è, per così dire, storia sociale. Qui, in questo lavoro di Dona Amati, c’è altro, c’è il tentativo intanto di riaccostare il corpo a qualcosa di mitico, o ontologico se preferite, a strumenti o canoni più raffinati, più adatti a intuire l’intima sostanza di un corpo abitato dall’amore e dall’eros in maniera inseparabile. Un corpo (è questo forse il senso di quel “dal” nel sottotitolo) che si esprime, détta il verso, da esso il verso proviene. E a cui, probabilmente, si deve l’obbedienza a cui il titolo allude, obbedienza che, sia chiaro, non è asservimento, ma qualcosa che assomiglia di più a una specie di fede gnostica.
Da questa idea forte di base nasce un libro organico, non solo nel senso di buona ossatura, ma anche di vitalità interna delle parti articolanti tra loro, con le loro buone ragioni, un singolare trattatello d’amore.  Poichè parlare di Eros, quand’anche si manifesti come dio, non basta, come sapevano bene gli antichi. Esso è dotato di diverse anime, in una raffinata distinzione che dà fondamenta alle sezioni del libroHimeros, la passione del momento, il fuoco che deve essere combusto e ridotto in cenere, “carne in festa”, “pasto fisico”, “facili bocconi d’eros”, per citare le parole di Dona, un momento in cui sono “appena accennati i discorsi del cuore”, anzi il cuore è “in palude”, non conta, o non  ancora; Photos (o Pothos), il desiderio lontano, a cui tendiamo, in qualche modo differito, nutrito della speranza che arrivi o ritorni, idealizzato in una forma che assomiglia molto a quella di cui i romantici ammantavano l’amore, erratico e immaginifico, e in sostanza tanto languido per quanto rimpianto, “tormento tolemaico al mio / tempio solitario che caduco / gli sopravvive intorno” dice l’autrice con  bella immagine parlando di qualcosa di già trascorso; Anteros, l’amore corrisposto, inteso nella sua totalità di trasporto sentimentale, affettivo ed erotico biunivoco, una intensa comunicazione a doppia via, quello a cui tutti noi siamo disposti ad attribuire il crisma della verità, il completamento (come vedremo), l’amore in cui – dice Amati – si riconosce “un odore / nel ricordo di un mai vissuto”, si salda un “debito d’amore mai estinto / dalle storie incomplete”, ed è “simbiosi d’appartenenza / – la nostra appartenenza – / sensuale / cucita a noi addosso per sortilegio ambito”, ove “l’oscurità sbiadisce inerte / al sollievo dei tuoi sorrisi”, una fortezza in cui insieme resistere (e l’ultimo verso della sezione – e del libro – recita infatti perentorio: “Nessuno ci tocchi”). Con Anteros il cerchio simbolico si chiude e si soddisfa, poichè, mi piace ricordare, mentre Himeros Photos sono connotati e manifestazioni di Eros, Anteros ne è fratello, secondo la mitologia classica, colui che con la sua vicinanza permette a Eros, altrimenti eterno inquieto fanciullo, di crescere e completarsi.
A ciascuna di queste anime dell’amore l’autrice assegna un’attributo, come in un gioco di tarocchi o nel I-Qing. Se Himeros è “La dipendenza” e  Photos è “L’impermanenza”, Anteros è “La quintessenza”, ciascuno, in ragione di quanto abbiamo visto sopra, con il suo diverso “obbedire”. Facile forse riconoscervi un percorso biografico, una intensa trasposizione in versi del vissuto, un bilancio. E anche, certamente, una scelta, per esempio proprio “riguardo all’obbedienza”. Che è parola antica, biblica, “pesante” (come ricorda giustamente Letizia Leone in una nota), ma che qui a mio avviso, come ho ricordato prima, riassume in sé quasi un carattere religioso di virtù. Ma senza, sia chiaro, né la docilitas né la docibilitas che tradizionalmente si associano all’obbedienza. Insomma né obbediente né discente, la poetessa ci avvisa fin dall’inizio, nella sua dedica “Canto d’amore – Obbedienza a Lilith”: una voce da donna a donna, tra l’autrice e la donna creata prima di Eva e cacciata dal Paradiso per aver disobbedito ad Adamo, quasi un manifesto della parte umbratile e indocile del femminile e del “demone” che in essa alberga, disegno di una soglia che forse nessun amante – pur essendone attratto e perturbato – riuscirà mai ad attraversare del tutto, di quella “essenzialità della differenza” che potrebbe ricordare Luce Irigaray. E l’uomo – pur amante/amato amatissimo – è ospite in questa coscienza “ospitante” e in questo corpo.
Se il corpo è centrale e “détta”, poi infine è lo strumento dell’artista che riannoda il tutto: la parola, il Verbo laico (come ben ricorda Rino Caputo nella prefazione), il legame, il Logos che ricomprende e bilancia in sé Eros in perfetta individuazione junghiana, insieme razionalità descrittiva e potenza verbale della poesia, la primazìa trionfante del linguaggio (qui preciso, attento, controllato, mai esibito) orchestrato con “esplicito e consapevole maneggio di forme del dire, prosodiche, metriche e stilistiche”  (Caputo) ed anche, aggiungerei, liriche. Come scrive Dona nell’incipit di “Poesia per un poeta”: “Potendoti crescere nella bocca / sceglierei d’ esser parola / il fusto di un suono antico…”. (g.c.)

da La dipendenza – Obbedienza a Himeros
Senzienti e senza uguali le tue dita
risalire le mie gambe
incastrare l’occhio buio
– la luce non serve alla pupilla
umida come
una sentenza irrevocabile –
Ingoio il demone, la mia stella capovolta
i pensieri traboccano peccato originale,
quello che legge la notte
del fuoco acuminato,
che sbatte le ali dentro la pelle,
che mi allunga la schiena
per confinarla alle tue membra
saccheggiami,
anagrammando gesti
intimati dalle nostre dita oltre
l’ultimo possesso del tuo odore
– anche un frammento
può farmi guaite —
(appena accennati i discorsi del cuore).
COITO
L’uomo nella stanza
come scommessa dalle tracce discinte
è un’altra induzione
alla carne in festa
un losco lessico tabulato in sillabe
sintagmi – appunto – di serra in esplosione
terra di ioni intermittenti
l’accoglienza simultanea di tuoni nel corpo.Quell’uomo nella stanza, dico,
come sa compire,
come replica la matrice laida che
ristora le sfasature delle viscere
lui escogita orazioni circolari sui corpi
tondi come vipere allacciate
alla regola che
osanna il pasto fisico.

DI EX BACIO, IL MATTINO D’AUTUNNO

Stamani è il soffio che recita con me
nell’accorgersi che qualcosa è
da tenere stretto.
Perché le luci del mattino più rosse
non claudicano alle solite insofferenze
e ingoiano un altro saluto a
fìngere ancora che
l’eco del selciato sia spazio dei tuoi passi.
Si muovono queste foglie sul chiaro dei tuoi occhi?
Si muovono perbene sull’orecchiabilità del vento.
Chissà se l’autunno di un bacio
intristisce anche dell’alba il sottofondo
quello che fa di tutto,
già orfano di verde.

 

da L’impermanenza – Obbedienza a Photos

Nel languore amoroso qualcosa se ne va, senza fine; è come se il desiderio non fosse
nient’ altro che questa emorragia. La fatica amorosa è questo: una fame amorosa che
non viene saziata, un amore che rimane aperto.

Roland Barthes

… che non è solo esile il fuoco
del cuore quando brucia,
è un tormento tolemaico al mio
tempio solitario che caduco
gli sopravvive intorno.
Per aspera ad astra
antica ritorna la stella a venire,
come guscio migrabondo d’armonia.

 

AL MIO MASCHIO DI CASTA ZITTA

Mi monti nel laccio del silenzio.
È così che è. Il lieto fine è fermo al piacere, un soccorso agli istinti.
Sei complice di te stesso, non dell’aria che intorno
gareggia col mio nome. Non vuoi sentirlo, ed è
inutile che io presti la voce.
Un groviglio zitto è la faccia rovescia della medaglia
che ti arricchisce il vanto, il sol levante che t’illumina
circoscritto alla schiena nuda.
Gli occhi li tieni riluttanti alla mia aura, bui e poveri di indulgenza.
Oggi ti incontro. Ho già ridotto a zero
l’innocenza, trema un tam tam di libidine incompleta,
la tua meta metà, l’irrisoria adorazione del tuo fusto
alto sulla mia obbediente inclinazione.
A darti silenzio solido fino alle ossa.
Nessuno sa che ti sdrai accanto a me, e dovrei anch’io ignorarlo.
Non lasci la testa nel cappio del sentimento
ma il corpo biblico ne ha due, e la mia ne è strangolata.
Esisti, non esisti, mi interroghi, non parli.
Quindi mi resti come io voglio, e non puoi farci niente.
Come una certa morte che si dà, una libertà spenta.

 

ANDARSENE (DISMESSA)

Il momento è tuo, adesso
mentre addomestico il sangue.
Interrompo la voce se è arrotolata su un silenzio regressivo.
Io contengo.
Sono il tuo nulla non rivelato
l’acqua statica muta
il nocchiere cieco
la nuova deriva del silenzio.
Ora sei tu che scivoli come
un’unghia che ha sacrificato la presa,
non ci salva più la fretta anchilosata sul sesso
i corpi marciscono al primo orgasmo, la voglia
dismette la sua sete, una bancarotta ai sussulti del piacere.
E quella foga di andartene, il soldo di latta del tuo bottino
che pretende pagar d’ufficio la mia rabbia.
Resto, indigente – e illesa – come un dio infame.

 

**

Scorteccio pudori che fanno rete
di liane nella foresta soffocata
dei miei incanti ma eccomi troppo
sola per rotolarmi ancora nei perché.

Batto la polvere e scaglio frecce
per un cibo di selvaggina triste
sulle rocce fredde poso le mani
le gambe intrise della mia acqua nuda.

Ma è nel senso sottile del rifiuto
di un volo solitario, lo scompenso
di equilibro che trottola via
e sottrae le domande impudenti.

Non dico e non potrei dire
neanche aggiustando la fila delle parole
del morso che smagrisce il mio giorno.
La spiga indora tanto che io perdo colore.

Le mie rovine migrano estinguendosi.

 

da La quintessenza – Obbedienza ad Anteros

Dovrei costruirla la cruna dell’ago
per passarci dentro
ostinata al senso andato di un passaggio unico.
Nel tuo giro di bocca, amore
arrotondarti lo spazio con le parole
prima di
fare leva sugli anelli nascenti.
Di carne e delizia.
Solleva bene il caldo del mio ventre.
Cos’hai da pungolarmi dentro?
Io so come fare
a martellarti le tempie e non deluderti.
È ad armi pari la catasta divelta
serrata infine come crisalide.

 

CERTE PICCOLE NOTTI

Se ti lasciassi in fondo alla voce
la mia bocca stupita,
tutto il fremito di brace sanguigna
che arde il sole degli amanti creduli
e i tuoi piedi stesi sul mio respiro grave
nel bozzolo intimo di lenzuola e sospiri,
potresti credere delle piccole notti insieme
il profondo liquido odoroso che ne deriva.
Siamo finestre socchiuse alle parole nuove
la trasparenza carnale degli accenti.
Certi amanti non tacciono del buio
che la luce più audace,
lo strano stato dell’esilio volontario
nell’urgenza delicata del silenzio.
Lì restano, intimi innocenti.

 

POESIA PER UN POETA

Potendoti crescere nella bocca
sceglierei d’esser parola
il fusto di un suono antico, che
fiato corto sull’insonnia dell’amore.
Metterei a dimora la voce perché il nodo
morbido del tuo nome perfettamente
veda l’armonia della sua pronuncia
quando son io a chiamarti amore
rotolando come sorso in piena nella gola
attenta a benedirmi del tuo respiro
sarò pelle viva di un verso atteso che
come inno della lingua abiterà amore.

a Ugo Magnanti

fonte: http://ellisse.altervista.org/index.php?/archives/689-Dona-Amati-Riguardo-allobbedienza-Poesie-dal-corpo.html

scheda libro

Related Posts

Tags

Share This

Leave a Comment

You must be logged in to post a comment.