Guido Fauro su “Taccuini” di Ignazio Gori
Le poesie del libro TACCUINI – già lette e sedimentate, perché a tempo e luogo mi dedico anch’io alla poesia – le devo riprendere in mano per cercare non certo di vendervele (mi si passi anche questo termine) ma per cercare di spiegarne l’essenza – quanto in esse mi ha colpito – e quindi trasmetterla, renderla appetibile… perché, altrimenti, tu, tu e anche tu dovreste leggerle? Beh! provo a dire la mia e poi ognuno faccia ciò che vuole!
Il titolo TACCUINI – come esplicitano la Nota di lettura di Luigi Cannillo e la Nota dell’Autore – suggerisce più che dire, allude: come è, appunto, per un taccuino. Chi ne usa, normalmente vi segna, in note sparse o in personalissimo ordine, intuizioni e suggestioni su cui meditare, prima che anche uno solo di questi “elementi” sbiadisca – vi fissa “elementi” che saranno poi elaborati, approfonditi. E pertanto il linguaggio del taccuino può essere in formazione e criptico, rispetto al finito… che non necessariamente seguirà.
Sempre in Nota, l’autore confessa che il libro è una “raccolta da taccuini e quaderni” anche non rimeditati, da considerarsi “al pari di frammenti” (eppure – è la mia opinione – che capacità di dire in queste note, in questa poesia essenziale! Non che non si possa stimare – se si apprezza questa –
la poesia fatta di endecasillabi, terzine e mottetti! Ma ben ho avuto modo di vedere poesia in questi versi stringati, scarnificati quasi!)
Tornando ai taccuini, immaginiamo di trovarne casualmente uno. Beh! penso che potrebbe suggestionarci la poetica del frammento – di greca memoria! Diremmo, ad esempio: “ecco cosa abbiamo, cosa resta! chissà dove voleva arrivare l’autore!”; oppure diremmo sfogliandolo incuriositi: “ecco da dove muove una creazione!”
Sia come sia, il gemellaggio di frammenti antichi e dei versi del presente libro mi rimanda a qualcosa di uguale e contrario.
Uguale perché entrambi si danno come frammento, elemento in essere, appunto.
Contrario perché questo qualcosa non è, in sé, quello che rimane, ma è seme, sviluppo.
Sempre per nessi con la classicità, potrei allora suggerire come vedrebbero un mattone l’archeologo e il muratore. (Prendo il mattone come modulo di un percorso – data la modernità dei versi di Ignazio, però, dovrei forse suggerire un mattoncino del Lego!)
Per il primo, questo modulo è la traccia certa di qualcosa che è stato, e va ricostituito (più che ricostruito)
Per il muratore, è la potenzialità del costruire, del fare – poesia (dal greco POIÈIN) significa “fare”, appunto!
Il caso tesse strane reti: giusto di questi giorni una mia rilettura di Majakovskij. Che intitola una poesia Il poeta è un operaio: Gridano al poeta: / “Ti vorremmo vedere accanto al tornio. / Che sono i versi? / Roba da niente! / Certo che a lavorare mica ce la faresti.” / [e quello a rispondere] / Sono anch’io una fabbrica. / E se non ho / ciminiere, / forse, / per me / senza ciminiere è ancora più difficile. / …
Oppure questi altri versi: … / La piazza strepita, / le vetture si muovono, / io cammino / scrivendo versi / nel mio taccuino. / … / Uno stuolo di sogno / e di pensieri / mi riempie / fino all’orlo. / …
Come ancora: … / Conosco la forza delle parole / conosco delle parole il suono a martello / Non sono di quelle a cui plaudono i palchi / … / Succede che le buttino via senza stamparle senza pubblicarle / Ma la parola galoppa con le cinghie tese / fa risonare i secoli e i treni strisciano / a leccare le mani callose della poesia / … Non c’è, anche qui, la lirica della quotidianità? [trad. Ilaria Pittiglio]
Il peso delle parole: senza necessità di essere ridondanti – come dicevo poc’anzi: Ignazio ha poesia scarnificata, ma che lascia il segno – come un sigillo!
Leggo in Nota di lettura che lo sguardo del poeta “si sposta su quello che ci circonda” – e rifletto sulle circostanze che suggeriscono pensieri (poesia, qui); leggo anche di relazioni con l’haiku e rifletto su una forma di comunicazione oggi tanto criticata quanto ineludibile: mi riferisco agli SMS. Alta o stringata che sia la forma di comunicazione, in essi c’è comunque una forte capacità comunicativa. Sta a chi legge aggiungere il non detto, per capire! Perché se c’è un comunicante (Ignazio Gori, in questo caso), c’è ovviamente una cosa comunicata (le sue rapide note/poesia). E qui la lettura delle poesie in esame si fa interessante: perché Ignazio comunicando il quotidiano è capace di poesia – quindi scrittura alta, anche se non necessariamente in rima e pentametri! (Del resto, tornando brevemente in difesa dell’SMS, si confrontino cifre come “tvb”, “tvtb”… Tra l’altro, sfido chiunque a non volerli derivazione moderna di tutta una documentazione antica, poetica o meno che fosse: mai provato a sciogliere da un’iscrizione trionfalistica, da una lapide? saputo mai niente di epigrafia?)
Leggo allora alcuni esempi da questo quotidiano!
72: Gli occhi gonfi del mattino/ sul tram pieno di operai / che scende lento lungo il viale / ubriaco di un sole / che arrossa il mio taccuino / … /
Oppure, 85: La Poesia è morta nella Realtà. / Occorre al più presto trovare / altre forme di carità.
Eccola, la poesia: perché Ignazio Gori comunica senza fronzoli – sì, qualche assonanza, qualche rima! – con svelto e deciso lirismo.
Breve – come gli haiku, si diceva – per dare l’essenziale; e così, come appunto suggerisce la Nota di lettura, ecco, 58: Vanno le lumache per la loro strada / su colline, dove nessuno vuole / morire con gli occhi / di un aprile che muore. / Io canto l’amore, ma dalla tristezza / la mia bocca non s’allontana. L’autore non canta il sentimento della sua tristezza – non dice sua, perché è quella di ognuno: tristezza nella sua universalità (non globalizzazione). Non il mio dolore, il tuo dolore, ma il DOLORE; non il mio lutto, il tuo lutto, ma il LUTTO, e via dicendo: sentimenti come maiuscoli protagonisti della vita di ognuno.
Si leggano a riprova, 59: Due ragazzi si baciano sulla panchina / Il mendicante li guarda, più solo di prima. Non solitudine, ma la SOLITUDINE.
67: In cambio di due lire / rubate al sentimento / rimastico le bucce della vita. / Anche se inutile: // la carità, a volte, è figlia della peggiore corruzione.
E ancora, 80: Come perdonarsi autonome galere? / I trentenni del duemila / sono cadaveri imbellettati. Sentimenti presi dalla vita di ognuno, dicevo; vita che si esplicita anche in quest’altra poesia, 44: Bellissimo mangiare al ristorante / con soldi rubati a un distratto amante. Dove a mio avviso le marchette della vita/per la vita, si scontrano con l’amara constatazione che, 42: … / Castigo è l’autunno / per chi non seppe vivere l’estate. Ossia, la vita illude, e non ripaga! Quasi un ossimoro rispetto all’apologhino su la cicala e la formica, direi!
SENTIMENTI VARI: sentimenti scavati da Ignazio, ed esposti senza descriverli più che non sia necessario: 23: L’impiegato comunale / stanco trascina / la sua scopa sul piazzale. / Io lo guardo, stanco anch’io / di non so cosa, / forse di un domani / d’umile asservito. Come dire, il quotidiano si fa poesia del dolore esistenziale.
O anche, 56: Oggi riaprirò il corso delle cose. / Ma un solo gesto solidale / mi aspetto dal negro / dietro la porta dell’amore. / (Ma devo ammetterlo: / la solitudine vivifica la vita.) Tra l’altro, musicalmente, si assapori quanto è forte questo suo vivifica la vita.
Tra i SENTIMENTI VARI, colpiscono le NOSTALGIE, su cui insiste ancor più che sui rimpianti. Come in 27: Se nel bar mancano le arance / il ragazzo si precipita al negozio. / Ne ritorna tutto colorato / come dall’orto dell’infanzia. E con semplicità, dalla parola orto schiudono, nel più che plausibile episodio quotidiano, orizzonti evocativi di un proustiano perduto.
19: Azzurro il colore / della mia miseria romantica. Non necessario, dunque, all’atmosfera nostalgica un fondale da imbarco per Citera, mi viene da dire!
E ancora, 55: Derubato da un vento segreto, / come il cielo incerto di settembre / volta il viso, scuro o luminoso, / banderuola di un lido tempestoso. // Ma quel mare scuro, che tu celi / io lo amo… Vedremo poi come sa parlare anche d’amore!
SENTIMENTI VARI anche quelli che muovono le ASPETTATIVE, o da queste emergono, 61: Non più in là della mia lingua / è l’alba, e il mattino.
O, tra tali SENTIMENTI, il DOLORE – leggo estrapolando da 65, Lettera d’amore di un comunista al confino: … / se il mio amore avesse parlato prima / … / Ho imparato lentamente ad abortire / il dispiacere, ma il tempo asciuga le ferite, / persino dell’amore. Fino al verso finale: … / e il mare sonnecchia in fondo alla coscienza. Nonostante tutto la vita! Qui Ignazio, come intitolava la poesia, racconta di un confinato.
Tutto con toni da acquerello – ancora da un appunto della Nota di lettura. Ma nonostante questa leggerezza di impronta sulla pagina, tutto è solida concretezza: ossia è il reale, il quotidiano di ognuno di noi.
E per tanta rarefazione di parole – pensiamo per un momento alla roboante poesia di Majakovskij – quella di Ignazio si fa poesia di silenzi, più ancora che del non detto. Il mattone, tornando a quanto prima indicavo, quel mattone, non è che parli: siamo liberi di lasciarlo lì, inerte, di non interagire – eppure, come il silenzio, c’è!
Poesia sobria, poesia che arriva. Più traccia che frammento, allora: poesia che si fa, come dicevo prima, seme, sviluppo.
Nel quotidiano di Ignazio, in equilibrato bilanciamento tra sensualità e sessualità non manca l’AMORE, 39: … Ed io senza pretese / sarò lì, ricco e povero / di un solo amore.
O 14: Io non sogno un futuro d’oro / ma un amore equamente ripartito. A noi scoprirne ogni vastità di ramificazioni – anche smarrendoci in esso.
E così 16: A scaldarmi un sogno / non ho avuto che la mano. / Ma ogni sogno muore. / Solo l’amore corre, / corre senza freno. Il corpo amato – ma anche l’amore per il proprio corpo. Corretto, in Nota di lettura, citare Sandro Penna (e immagino che Ignazio non lo consideri un limite).
Ma a parte tali referenze, ecco altre estrapolazioni del suo concetto/suoi concetti d’AMORE, 54: Alfabeto di squarci il corpo / che tu attendi, ansioso / sul letto del nostro mal riposo.
E poi 34: Mi piaceva un ragazzo che dormiva. / Senza toccarlo gli augurai una dolce deriva. (Come 54 [Alfabeto di squarci il corpo … ], anche questa poesia la intenderei come un augurio a se stesso). Oppure 35: Rivestirsi è il momento più brutto. / Si riduce a questo l’amore di getto. E qui vedrei la realtà fisica dell’amore – conclusa: non necessariamente giudicando se con esiti o meno di felicità.
Anche nella seguente poesia soffia una grande sensualità, 70: Ho ringraziato chi toccandomi / mi fece piangere come un bambino. / Viva il soffocato mondo che m’accarezza. / Ognuno ha il suo assassino.
E si guardi a cosa giunge scrivendo di un amore, non dell’Amore! 76: Il peso di un amore è un debito d’onore. / Questo mi ha insegnato uno strozzino.
E anche 77: In amore vince chi fugge. / In solitudine chi rimane.
Ecco, in sintesi quanto emerge nella vita di ognuno – legami sentimentali, solitudini, reti di nostalgie e dolore; qualche aspettativa e molti sogni che tali si riveleranno al risveglio! Ma è la VITA, come ancora Ignazio Gori ci racconta nel peso delle sue pagine: per brevi sintesi, concetti annotati nel taccuino, testimoniando dalla sua VITA. E come non trovarsi in sintonia con i suoi Taccuini, se leggiamo:
11: La vita che non ho / m’adombra di sfuggita.
O 21: Vista dal di fuori la mia vita / non è che triste aiuola / che mi fa feroce …
E 25: … / Amabile assassino il tempo. / I debiti crescono dentro.
Oppure la seguente, che come le già lette (54 [Alfabeto di squarci il corpo … ] – 55 [Derubato da un vento segreto … ] – 56 [Oggi riaprirò il corso delle cose… ]), vuole rappresentarci davanti al nostro specchio interiore, 57: Sono stanco, ma mi è cara questa vita. / Vivere è la scusa di un povero innocente.
In chiusura, brevemente. Nel presentare un autore, di solito se ne leggono alcuni versi, qua e là una poesia intera. Con Ignazio mi sono trovato di fronte a poesie–sigillo – spero dunque di non averne rovinato il mood leggendole quasi sempre per intero: perché basta un distico al nostro poeta per dire tutto – altro che haiku!