Claudio Marrucci su “Di oggi, Omero prende solo il fiore”
Mario Paoletti, è uno scrittore argentino incarcerato dal regime di Videla e poi espulso dal suo paese d’origine. Esiliato in Spagna, vive a Toledo, dove dirige “Il centro studi internazionali della Fondazione Ortega y Gasset”. FusibiliaLibri, grazie al lavoro dell’ottima traduttrice, Antonietta Tiberia, lo propone per la prima volta al pubblico italiano.
Mario Paoletti è un grande poeta, ma soprattutto è un grande poeta argentino: queste due affermazioni potrebbero sembrare in parte contraddittorie. Prima di tutto perché una certa tradizione idealistica, che in Italia affonda le sue radici in Benedetto Croce, vuole che la poesia sia un’intuizione prelogica, che va al di là dello spazio, del tempo, della lingua e persino della nazionalità. In secondo luogo, perché c’è una tendenza, soprattutto negli scrittori ispano-americani a considerarsi semplicemente “cittadini delle patrie lettere”, esseri apolidi che vivono e si nutrono di una letteratura universale, basta pensare a Jorge Luis Borges o Octavio Paz.
Ultimamente, però vi è un’altra tendenza, che ha preso piede soprattutto in alcune Università americane ed è rappresentata da critici come il peruviano Julio Ortega, che ho avuto il piacere di conoscere a Madrid, insieme a José Emilio Pacheco, Carlos Fuentes e Juan Gelman. Questa tendenza critica, ermeneutica e filologica, insiste sulla comunanza linguistica tra la Spagna e l’Ispano-america, tra il Portogallo e il Brasile, tra la Penisola Iberica e il continente Latinoamericano, tanto da parlare di Letterature ibero-americane. Eppure, come dice lo stesso Paoletti:
“Quando si ritira
la nazione colonizzatrice si porta via il paese
come chi riavvolge il tappeto dopo una festa.”
Fino a qualche anno fa, quando molti paesi ispano-americani erano ancora soggiogati da alcune tremende dittature, frutto dell’operazione Condor; la Spagna si era da poco liberata da Franco e stava godendo delle libertà democratiche, riappropriandosi dei valori della Seconda Repubblica. In quegli anni Barcellona, era la patria che accoglieva e pubblicava gli intellettuali ispano-americani, molti dei quali in esilio. Quando però, a Barcellona si è intensificato il potere delle autonomie locali, in particolare con un’intensa promozione e valorizzazione del catalano, che è quasi arrivata a una diglossia del castigliano; gli ispano-americani hanno preso la volta di Madrid, dove hanno trovato terreno fertile. Infatti, riconoscendo e promuovendo le varianti ispano-americane del castigliano (dall’argentino al colombiano, dal cubano al cileno), sul fronte interno aumentava il peso politico dello spagnolo nei confronti delle lingue regionali; mentre, sul fronte esterno, lo spagnolo acquisiva peso su altre lingue di veicolazione mondiale come l’inglese, il cinese o il francese. Insomma, da un certo punto di vista, l’identità “ibero-americana” è convenuta sia agli spagnoli, sia agli stessi ispano-americani, ma con alcuni pro e alcuni contro che derivano da una “castiglianizzazione” dello spagnolo e da una “spagnolizzazione” del castigliano.
Inoltre, parlando di un poeta argentino, e quindi di un paese figlio dell’immigrazione, è sempre molto difficile attribuire un’identità. Ius solis? Ius sanguinis?. Già dal nome, Mario Paoletti, trascende una chiara ascendenza italiana, come per lo scrittore di tango Enrique Santos Discépolo o per il cineasta Ángel Faretta. Infatti le biografie poetiche di Hetero/Doxos, racchiuse nel libro, molte delle quali, dedicate a personaggi chiave della cultura italiana e latina, sembrano riscritture di una identità sotterranea, “oriunda”, di echi nostrani. Eppure, Mario Paoletti è una delle voci più classiche dell’Argentina.
“Il Rapsodo non cerca l’originalità:
sa che il suo canto non è solo suo”
Di qui, l’intertestualità tipica del discorso letterario ispano-americano, ma soprattutto argentino, da Borges a Cortázar, passando per Boy Casares; che in Mario Paoletti si esplicita, ad esempio in Quaderno di Proust, una raccolta poetica che assomiglia a delle note a margine, in poesia, sulla Ricerca del tempo perduto.
Sulla stessa linea l’amore per i palindromi, i labirinti e i giochi di parole, da sempre molto amati dagli scrittori argentini:
“Passò la vita invidiando un uomo
che poco prima di morire gli confessò
ho passato la vita a invidiarti.”
E tipicamente argentino è il grande amore per Maradona, il Che, ma soprattutto il tango:
“Vorrei non mi mancassi, ma mi manchi
città dei buchi nelle calze
di ragazzi adulti e adulti bambini
città che sempre si innamora dei suoi spacconi
i suoi bari, i suoi salvatori della patria..”
Ditemi se questi versi non assomigliano a Cafetín de Buenos Aires?
Questi riferimenti, sono indicazioni di un’estetica ben determinata, porteña, oserei dire. Che si rivelano fondamentali, però, anche per decifrare il contenuto. Infatti, leggendo questa poesia:
“Basta immaginare una pianura enorme
e, al centro, disteso, il corpo di un uomo.
Così, orizzontale e minuscola,
la vita di un uomo non vale niente.”
Il lettore italiano potrebbe far ricorso a una semiosfera, citando Lotman, dell’incomunicabilità. Questa poesia potrebbe richiamare alla nostra mente, qualche immagine del cinema di Antonioni dall’Eclisse al Deserto.
Eppure, se si ha presente un altro deserto, il Deserto di Atacama, serie poetica scritta da un cileno Raúl Zurita, anche lui di origini italiane, che rappresenta una trasfigurazione poetica del deserto in cui venivano lanciati, ancora i vivi, i desaparecidos, dagli uomini Pinochet, per farli sparire nel vuoto; ecco che queste immagini assumono un’altra tremenda connotazione, meno esistenziale, ma più storica e politica. Scrive Paoletti in un’altra poesia:
“Sulla tortura
ci sono due opinioni:
quella dei torturatori
e quella dei torturati.”
Vorrei tanto poter affermare che ogni tragedia umana, appartenga all’umanità, purtroppo non è così.
L’essere umano, però, non è meschino, vive solo in un qui e in un’ora con tutti i limiti che tale natura comporta. Per questo Mario Paoletti è un grande bandoneón argentino.
Ma la musica, quand’è vera musica, emana da un luogo per travalicare il tempo e lo spazio.
Diceva María Luisa Regueiro Rodríguez, linguista argentina della Universidad Complutense, che il racconto di Augusto Monterroso: “Quando si svegliò, il dinosauro era ancora lì”; in realtà si riferiva alla situazione politica messicana, anche se poi è stato interpretato nei più svariati modi.
L’arte è grande quando si può decontestualizzare, quando comunica sempre, al di là del referente.
Per questo Mario Paoletti, oltre a essere un grande poeta argentino, è soprattutto un grande poeta.
fonte: http://lascolto.blogspot.it/2015/05/paoletti-mario-di-oggi-omero-prende.html