Frammenti tematici sulla poesia di Monica Osnato

Ott 14, 2011 by

di Ugo Magnanti

1

 

La notte

 

 

La notte, una notte tutta terrestre, scevra da implicazioni trascendenti, è il tempo più propizio alla poesia di Monica Osnato. È il tempo in cui più pura appare la sua cifra compositiva: una sorta di ‘teatro intimo’, di ‘voce recitante’, che non proviene da uno sguardo frammentato, e cioè da una scrittura condotta sull’incanto di presenze plurime, ma da un io lirico assolutamente coincidente con la donna che scrive.

Nel silenzio della notte, che può essere allineata sotto i ponti del fiume, e “aperta come un ventre di balena”, Monica sperimenta un rifacimento del mondo, in cui la meraviglia è riposta nel nitore, nella distanza e nella sospensione dello scenario, nonché in un’espressione misurata ed evocativa, che aggiunge un respiro delicato alle parole, un lievito, un’eco, una trama che tende ad inghiottire il caos originario.

In questo caos riordinato attraverso l’introspezione notturna, fermentano gli estremi sedimenti di una lunga memoria letteraria.

La notte, infatti, è un motivo che ricorre spesso in tutte le letterature, antiche e moderne. E i notturni di Monica, nei quali la riproduzione stilizzata si intreccia con l’emozione e con l’immaginazione, possono rimandarci, fra i tanti riferimenti possibili, persino a una riflessione che si incontra nel Secretum petrarchesco: “Chi potrebbe enumerare tutte le bellezze d’una notte serena? (…) Alzati nel mezzo della notte e osserva tutti gli astri che declinano nel silenzio dei cieli. Mentre li vedi correre all’occidente, sappi che tu sei mosso con loro …”.

Ma la notte di Monica non patisce nessuna inquietudine petrarchesca per una verità suprema, poiché si attua in una riapparizione ‘pagana’ degli istinti e dei desideri spesso inibiti dal giorno, e tuttavia, in un ricercato distacco letterario che tenta le possibili realtà celate dalla luce diurna.

È la notte che “spalanca vertigini”, “superba”, “quando cadono gli ultimi spaventi / e l’anima si getta all’avventura”, come riporta l’esergo di Alda Merini, significativamente apposto all’Oasi e la neve.

 

2

 

Il silenzio e le parole

 

 

C’è una chiave che Monica Osnato adopera per entrare in contatto con il suo spazio profondo, con la sua mente, con le sue intuizioni, e persino con le sue fibre corporee. È la chiave del silenzio: un silenzio poetico che prova ad esprimere ciò che per sua natura è inesprimibile!

La sua ‘voce recitante’ si stacca appunto dalla pagina, avvolta nel silenzio, e attraverso il silenzio, “pura d’oltre innescato”, sembra alludere, come la poesia dovrebbe sempre fare, a qualcosa che respiri, che fluttui, e che sussista, oltre le parole.

Ovviamente si tratta di un silenzio che sebbene intuito e desiderato, non è mai pienamente raggiunto, poiché il suo compimento assoluto significherebbe la negazione della parola poetica, come pure paradossalmente è stato immaginato da certa poesia moderna che si richiama alla corruzione e al disfacimento della lingua.

Monica Osnato al contrario, quasi con un gesto antimoderno, primigenio, ci rivela la sua gioiosa fede nelle parole, con una scrittura che tende alla purezza e all’innocenza, e che aspira a reintegrare, a rinnovare, e a rianimare il senso della poesia, nel suo valore più umano.

La sua poesia non è fatta per logorare, per snervare o per mentire, ma è fatta per inseguire la parola giusta, autentica, placata e scintillante sul silenzio, come un “iceberg sulle acque”, direbbe Maurice Pontet, anche se per ogni parola giusta scavata dal proprio seno e dal proprio ventre con apparente facilità, è necessario, rischiando a volte la sconfitta, affrontare e arginare il rumore invasivo dei linguaggi contemporanei, che infrangono il silenzio come condizione esistenziale del poeta.

La levità della poesia di Monica si dilata da questo silenzio segreto per evocare atmosfere interiori, lontananze, solitudini, abbandoni, per indagare parvenze, visioni, sogni e fantasie; quasi per monitorare e registrare, con una poetica fatta di percezioni, di attimi e di stupori, i mutamenti che in ogni istante avvengono in sé.

Queste parole che nascono dal silenzio sono quelle di cui ha bisogno il poeta, e cioè parole “sorvolate di stelle, inondate di mare”, per usare una definizione di Paul Celan.

Allora Monica sembra vivere, risiedere, nel suo silenzio come nelle sue parole, quasi dentro a una temperie contemplativa, che se per forza di cose non accoglie fino in fondo le lusinghe del silenzio, è perché sceglie di dire all’altro attraverso un codice accessibile, aprendosi a una rivelazione poetica chiara e dunque condivisa.

Ma è proprio in questa circostanza che la poesia antimoderna di Monica esprime la sua modernità, poiché la sua trasparenza, la sua condivisione, non significano quasi mai rinuncia alla concentrazione della lingua, o sacrificio di polisemia, e quindi, non significano neanche disconoscimento della funzione creativa del lettore!

In fondo, questa poesia fatta di silenzio e di parole si svolge nel faticoso intento di equilibrare i diversi modi di un’unica confessione, in un lirismo che appare come disciplina quotidiana, come esercizio di rigore personale intriso di umanità, anche oltre le intenzioni letterarie, nella volontà, perfino inconsapevole, istintiva, di reagire ai modelli sfibrati del linguaggio conforme, e di offrirsi come fuga dalla parola omologata, poiché “il dio delle parole”, “nascosto tra tutte le vecchie cose / prive di risposte”, si eserciti ancora sulle ragioni di un percorso, sui doni e le ferite di una storia, unica e irripetibile come tutte le storie.

 

3

 

L’esilio

 

 

Una delle più coinvolgenti modulazioni dell’io lirico di Monica Osnato si declina, nei più vari luoghi del corpus, col desiderio inesaudito di un ‘altrove’, di un ‘ovunque’, e con la ‘brama’ “d’essere / in tanti piccoli pezzi”.

A questo struggimento si sovrappongono continui allontanamenti, lontananze, distanze, in una sorta di febbrile assenza delle radici che “affondano ancora nel vuoto”.  È anche il sottile strazio di chi porta “… tutto via / eppure / rimane”, di chi ha il petto segnato “con cicatrici invisibili / di nostalgia”.

Giustamente, infatti, Duška Vrhovac ha sentito esalare dai versi di Monica l’ossigeno mediterraneo della terra originaria, i profumi e il cielo della patria italiana, il silenzio della notte in Sicilia.

E come non sentire, in questa poesia a cui sembra mancare la terra sotto i piedi, il rovello di chi è stata a lungo separata dal suo Paese!

Le radici di Monica “sono rimaste nel giorno, / piantate lì / tra le sue crepe di luce”. Così, se il pensiero dell’esilio trova la sua manifestazione più propria nella notte, o meglio, là “dove espatriano le notti”, allora i luoghi dell’origine corrispondono al bagliore solare, hanno la purezza della luce, la tenuità delle nubi che cambiano forma. E benché evochino nel ricordo una patria tangibile, ma idealizzata, in realtà non sono altro che rappresentazioni di una ‘patria di nuvole’, per citare J. P. Friedrich Richter, e cioè segnali, sublimazioni, della stessa lingua poetica, intesa come sola ‘terra’ in cui veramente può dimorare il poeta, essendogli preclusa, quasi per definizione, ogni profonda adesione al presente.

Del resto, come qualcuno ha detto, la parola, già di per sé, non fa altro che pronunciare l’esilio, e l’esilio vive nel fondo stesso di ogni parola.

Ciò che è lontano, perso nel tempo e nello spazio, rivive nel corpo della poesia, nel dialogo della poetessa con sé stessa, come costruzione di nuovi riferimenti in grado di rinsanguare un’identità che la distanza irrimediabile, che non è distanza geografica, rischia di affievolire o di snaturare. È la distanza da una stagione effimera, una stagione con le sembianze dell’estate “che muta la sua rotta”, con i giorni “segnati da un esilio di sale”. È l’impermanenza in cui vacilla ogni punto fermo, perché non esistono né territori né cardini su cui fondarsi, e il solo possibile significato, il solo possibile attraversamento, ha la forma di un presagio, di una parola che cerca di ‘approdare’, e che si celebra in quanto ordine, territorio, radice.

In questo modo, nella scrittura di Monica, l’ebbrezza dell’esilio coincide con l’ebbrezza della poesia, a volte fin quasi a un compiacimento che la induce a cantare sé stessa come mitizzato luogo della voce, come ‘straniera’ “tra stanche parole”, come donna che fronteggia in solitudine, e non potrebbe essere altrimenti, “questa lontananza dal mondo”.

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