Giacomo Cerrai su Ugo Magnanti
Forse è per questa vena performativa che Magnanti pone la sua poesia su un limite, come su una soglia. I vuoti, la palese lentezza della dizione in questi versi suggeriscono il gesto (o i gesti), la pausa sospensiva dell’attore. I testi sono spesso leggeri, tramati, si accendono e spengono velocemente, ristanno indecisi sul limitare marino di un silenzio definitivo, o sostano a meditare su qualcosa che sta tra l’elementare (detto in senso materico) e l’indicibile (“lasciammo le conchiglie dentro un certo / recipiente di vetro, senza vento, / senza un nome, né greco né latino: / su questo non ci parve avere dubbi” in Venti risacche). Altre volte, in testi più ampi e “respirati”, Magnanti investe e riveste il reale, il sociale, di uno sguardo decentrato, di un pensiero laterale che soffermandosi apparentemente sul marginale rivela invece cose nascoste, la possibilità che il testo medesimo o la poesia in genere possa svoltare verso altri impensati esiti. In tutti i casi rimane perspicuo (e perciò parlo di soglia) “il suadente impulso di oltrepassare la pagina scritta”, come dice Magnanti in una intervista. La poesia non appare quasi mai conclusa, conchiusa, l’impulso è condiviso con chi legge, anche se in questo oltrepassare ognuno forse si immagina il territorio che vuole. Che è la nota di fondo migliore che si possa lasciare in bocca ad un lettore di poesia.
la lode che segue la rete
che ho disceso
in silenzio
su una lastra
prospera una specie
e sfolla
rossa come sangue
con le stesse ferite
di sempre
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ti apprezzano i facondi
vita
chi vuole
chi traluce
quando la nuvola si apre
esala il brullo esame
morte
per chi muore
una gelida intuizione sulla grazia
si esercita nel fango
nel vuoto del palazzo
sul lume dell’annaffiatoio
rotea così l’assenzio della brezza
il giallo presagisce un viola immondo
che invita
che svela il fianco
e il grembo
70
vuota città che finisce
alle onde
al cielo venato
alla ruspa
quando scava
con le spire
dal cofano
cieche e roche
vuota città che finisce
imbianca le impronte
sopra i dossi si gloria
si tende
si logora
avvista i sassi che lancio
sul lindo
rapido blé
da 20 risacche (2007)
8
Se mai si fosse perduta, la barca
non sarebbe rimasta tanto a lungo
ai margini del globo, riscattata
dai richiami, dei pescatori, all’alba.
9
E separarono l’una dall’altra
tutte le sue braccia, dopo che fu
sbattuto su uno scoglio; ma nel caso
contrario, avrebbe continuato il nuoto.
20
Che fosse il mare, col suo andamento
arabo, a muoversi con noi, e non noi
a muoverci con lui, mi venne in mente
poi, ormai di spalle alla risacca e al vento.
da Poesie del santo che non sei (2009)
2
Le scarpe con il numero di sempre,
ovvio!; l’orologio invece comprato
un anno fa, giallo come un insetto.
E il vecchio muro verso cui sei sceso,
per metà uomo e per metà creatura,
a volte confessato dalla ruggine,
a volte dalla parodia: la ruggine…
fu anche più aspra della parodia.
3
Per piantare la palma nel giardino,
hai usato attrezzi tolti dal velluto,
curvo come davanti a un tabernacolo.
Nei giorni di pioggia hai portato in casa
il fango, e i graffi delle ardenti spine
quando era l’ora della potatura.
Oggi che in alto la tua palma impazza,
cosa significa questa lusinga
che quasi ti consiglia di tagliarla?
6
Di fronte alla parola scimmia fai una
faccia, di fronte alla parola rosa,
un’altra faccia: non ti offende il foglio
candido sul tavolo: dunque scrivi
scimmia e scrivi rosa, e altri lemmi sciocchi
che non devi contendere a nessuno.
Basterebbe però soltanto un pezzo
di pane sotto la città isolata,
o una tanica di nafta da stringere,
per fatti fare la faccia che hai da fare,
e così smarrire il nome che ti manca:
l’iroso rovescio di scimmia e di rosa.
da Il battito argentino (2011)
sono orfano
al convitto dei preti
e sono mezzo biondo
come la mia copia
ho il cranio ellittico
e sovente un ciuffo eretto
sono in un valico
quando gioco al campo
col busto all’indietro
e le braccia larghe
immerso
come un orologiaio
ma la mia copia
di me
non vuol manco la puzza
perché sono mezzo indegno
e mezzo cispadano
o di Gòngola
o di non saccio che strapiombi
allora mi deride
se mi incrocia per la strada
o al campo
mentre bagno fronte e polsi
già sudato
prima che cominci
l’insensata partitella
***
tengo perlopiù
l’epidermide del corvo
forse più ombrosa
o forse meno ombrosa
ma pure declino dall’est
e approdo qui con l’Albania
e sono cereo e dorato
così
sia io pallido o negro
islamita o cristiano
compare per delinquere
oppure onesto
così
io proferisca con bontà
e scatarri sul mattone
o sull’asfalto
***
parlo della creta
e di come è fatto l’uomo
a mezzogiorno
dall’altoparlante
nell’alveo della chiesa
suggerendo un regno
dalle ceneri
rivivono
corpi infiniti
sugli uomini
non sbarca più
la notte
di tutti i torti
fatti a dio
oppure al prossimo
verrà consolato
chi quei torti ha commesso
chi invece li ha subiti
sarà già felice
senza una ragione
fonte: http://ellisse.altervista.org/index.php?/plugin/tag/ugo+magnanti