Letizia Leone su “La mia dolce cenere” di Monica Osnato, Prosveta Ed., 2012

Nov 23, 2012 by

Questo libro di Monica Osnato si annuncia con la potenza di un verso estremamente musicale, “La mia dolce cenere”, così pregnante di senso e calamita semiotica di tutta la raccolta, potrebbe essere un settenario con l’aggettivo dolce rafforzato acusticamente dall’iterazione sillabica del ce- di cenere che sembra spegnersi dolcemente sul filo vocalico di una e ripetuta per ben quattro volte in quattro sillabe. Ancora: gli aggettivi mia e dolce, un possessivo e un qualificativo, riferito al sostantivo cenere, sembrano esprimere i termini di una conciliazione oltre ad indicare una modalità dello sguardo, quella del disincanto. O magari un modo di rivolgersi ad una parte del sè, del proprio passato.

Qui soprattutto vogliono essere la spia di una presa di distacco dalla caducità del proprio destino in una accettazione lucida e serena.

Come è stato chiarito nell’introduzione di Duska Vrhovac, il titolo è metafora e sublimazione di una condizione umana ed esistenziale gravata da un destino di caducità.

“Il tempo dilazionato e revocabile / già appare all’orizzonte” scriveva la Bachmann da latitudini nordiche, questo per dire che ogni vero poeta porta sempre la morte con sè, e cioè una coscienza del tempo umano lacerato dall’annuncio di una revoca. È questo senso di un nostro tempo revocabile aleggia su tutta la raccolta.

Date queste premesse si può dire che il libro è illuminato da un’ ansia metafisica e da un senso del sacro, là dove il linguaggio realizza una densa tessitura simbolica.

Ad esempio, cenere parola potente e rammemorante che riecheggia una vasta simbologia. Simbolo si, di morte e purificazione (senza dimenticare che nelle credenze antiche nella cenere era racchiusa ancora l’energia di ciò che era stato bruciato), ma anche simbolo di pentimento che apre alla meditazione e in questo caso l’accesso verso un sè interiore illuminato da una luce cosmica.

Mia dolce cenere è, soprattutto, una conciliazione con quello che è il destino ultimo della vita e delle cose dell’universo, in un senso escatologico.

Già nella prima poesia “Di me non mi appartiene nulla”, è contenuta la misura di una voce che ha raggiunto la meta di un’esperienza spirituale, il traguardo ambito di una palingenesi con tutti gli elementi del cosmo, una fusione nell’ “enigma fecondo” per usare le parole della Osnato “al fianco e nel fuoco di tutte le cose” ma anche e soprattutto il trampolino per tuffarsi nella mondanità, nella “terrestrità” dell’esitenziale ( e non a caso la seconda sezione del libro si intitola “Dal mio giardino balcanico”).

Dall’altezza della prima poesia inizia un percorso di individuazione e di riconoscimento del sè nel mondo attraverso lo strumento della voce, l’atto locutorio, di me solo mi appartiene la sorgente sconosciuta della mia voce; ma la cosa che sorprende è che questo percorso iniziatico è a ritroso, non è un’ascesa ma un ritornare giù da altezze coscienziali, anzi da vette illimitate dove la condizione della fusione all’ anima cosmica sconfina con l’indicibile che solo a tratti il linguaggio intuitivo della poesia riesce ad esprimere.

Ecco perchè questa immersione nei segni e nelle cose del mondo, si attua con la caduta delle parole, attraverso versi altamente lirici e simbolici come esemplificato nel testo “Cadranno le parole”.

Con una lingua evocativa si cerca di svelare un senso nascosto, che forse coincide con l’eternità riflessa negli elementi transeunti della natura.

Di conseguenza la caduta nel tempo è l’altro asso portante tematico del libro insieme alla discesa da un oltre ineffabile. Testo dopo testo vengono cadenzati i passi di questo pellegrinaggio terrestre, ( è l’anima straniera sulla terra recita un famoso verso di Trakl) ribadendo come la condizione del poeta sia quella dello smarrimento, dell’esilio e della perdita definitiva di un terra promessa intravista in una sensazione, in un sogno , in una rêverie.

In questi versi la condizione di una spoliazione è intrinseca alla rinascita lenta alla terra, al ritorno che viene scandito dalla ridondanza di parole come “ossa” , “ora”, “qui”, e ancora “seme” “penombra” “ombra” “macerie” termini di una condizione di solidificatio della materia come direbbero gli alchimisti (nascere…adagio, dalle mie ossa/ o da ogni sillaba…qui); in corto-circuito con lessemi che indicano apertura e altezza: “cielo”, “onda”, “azzurro”, “vento”. Quasi due linee di senso opposto che attraversano il libro incrociandosi e annodandosi continuamente.

Facendo un esperimento, quello di allineare uno dietro l’altro i titoli delle poesie, si scopre con limpida chiarezza la narrazione di questo percorso che non è un procedere verso una meta, ma un riappropriarsi della mondanità, della materialità della vita: “Si comincia dal vuoto, Cadranno le parole, Non ho altro, È tempo, Queste stanze”, ma anche “Meraviglia”, dove la meraviglia non è più nel cielo, ma nelle trincee scavate dai vermi.

Il viatico di questo viaggio è la parola stessa della poesia: poche, inferme parole/ che attraversino l’oceano/ del non essere.

I motivi del viaggio sono sparsi per tutta la raccolta: “i convogli inarrestabili, parto finalmente, navigando per mappe segrete”, sebbene andiamo scoprendo che questo viator, questa pellegrina terrestre abita il mondo come luogo del transeunte, è una migrante, una nomade sul cui sentiero si aprono continuamente squarci di un ultrasensibile portati a significanza dagli elementi della natura, siano il mare o il vento e le rocce, oppure elementi del regno vegetale, simboli di un comune destino di fragilità e finitezza.

In “Davanti al mattino” la contemplazione si fonde alla sensazione e all’esperienza: da così lontano arriva il mattino… con i suoi minerali trasparenti, subastrale…e poi il lato vivo, a voler sottolineare che l’incarnazione è la realizzazione dell’anima, nel qui e ora del nostro presente, della nostra univoca realtà sensibile. Le rose, così spesso portate in scena, le farfalle trasparenti, il papavero, ne sono l’emblema. E tanti altri potremmo individuarne linguaggio icastico che vuole raccorciare le distanze con l’inesprimibile.

Il libro è strutturato in tre sezioni/stazioni, o vasi comunicanti dall’ unitarietà tematica molto forte. Così questo avanzare su un sentiero di terra battuta devia, anzi scende ancora un pò nel “Dal mio giardino balcanico” o nell’ “Oasi” amorosa della terza sezione, in un grido di lotta sensuale volta alla cattura della mondanità del mondo, per usare una formula heideggeriana. Il nome dell’amante è il termine fisso,

l’ancoraggio a questa realtà di un eros potente che rischia di essere continuamente centrifugato nel vuoto.

Conosciamo l’importanza del nome già nelle culture più arcaiche, e ricordiamo che non aver nome significava non esistere, così come al contrario dare il nome significava chiamare all’esistenza, cioè creare. E la poesia (da poieio, faccio, agisco attraverso le parole), rivendica in questi versi la sua funzione demiurgica perfino dentro una storia d’amore, un amore che sembra assediato dai fantasmi della dissoluzione. O forse solamente da una superumana consapevolezza del suo termine.

Questo scrive una coscienza poetica: Il nome che urlo a squarciagola -nonostante nessuno di voi mi senta – il suo nome. E ancora: quando arrivo al libero fuoco del tuo nome, lì dove si rivela il miraggio del sangue ininterrotto.

Questa parola della Osnato si confronta sempre con il silenzio, specchio dell’impermanenza e del mistero del nulla. Il silenzio è un altro topos ricorrente che viene amplificato da altre corrispondenze, il cromatismo del bianco, la pagina non scritta, la pagina bianca priva di segni oppure al bianco quale al rischio di perdere la voce, la poesia quale strumento potente di individuazione: la voce se ne andata…naufraga nel bianco.

Questo bianco è un non-colore che esprime un silenzio assoluto, ma nello stesso tempo anche una sorgente, uno stato primigeniolibero da ogni inquinamento acustico in cui raccogliersi e ritrovare le forze per iniziare il faticoso viaggio iniziatico della scrittura: si comincia dal vuoto …per troppo silenzio…lo spazio bianco del viaggio abiterà con me…

Si riparte da qui, dalla chiusura nel bozzolo della propria coscienzialità che costringe la poeta sulla soglia dell’ineffabile nel momento in cui si confronta con l’altro da sè, infinito o abisso percepito e sfiorato nella dura materialità delle cose e delle creature.

Wittegnstein parlava di “un assalto al confine” che qui viene portato avanti di poesia in poesia, quasi una lacerazione di quel silenzio ambivalente, nascita e morte, spirale entropica di creazione e dissoluzione scandita dal tempo.

Tutto il libro è attraversato da una corrente metafisica e a proposito mi viene in mente una dichiarazione di Montale dove si afferma qualcosa che ha molto a che fare con la poesia della Osnato: ” c’è stata una corrente di poesia non realistica, non romantica e nemmeno strettamente decadente, che molto all’ingrosso si può dire metafisica… Tutta l’arte che non rinunzia alla ragione, ma nasce dal cozzo della ragione con qualcosa che non è ragione, può anche dirsi metafisica”.

Metafisica è la meditazione poetica di Monica Osnato sull’ idea di tempo, che ha sempre coinvolto artisti e filosofi nei secoli, e qui in modo fluido vive di passaggi felici da un tempo misurato, oggettivo e presente di un’ora chiara come una moneta, a quello interiore, pschico, dilatato nel ricordo che la percezione e l’intuizione cristallizzano nel verso, quei tempi che appartengono all’anima di cui ci ha parlato Sant’Agostino, mentre su tutto si spalanca un tempo cosmico, infinito sospeso tra minaccia e grazia/benedizione.

Libro denso di suggestioni e riecheggiamenti così come ogni messaggio poetico, quasi codice cifrato dell’anima.

La sensazione che mi ha lasciato la lettura si può riassumere in un’ immagine, quella di una mano coraggiosa che apre delle porte chiuse su dimensioni ulteriori,

verso quel sapere dell’anima così bene bene espresso dalla filosofa Maria Zambrano. Sono spazi preclusi, zone di una realtà nascosta: “il poeta è l’uomo divorato dalla nostalgia di questi spazi, asfissiato più di chiunque altro per la ristrettezza di ciò che ci viene dato”, il poeta è avido di intimità con tutte le forme possibili della realtà. Ecco in questa poesia la consapevolezza di una realtà “che appassisce senza tragua”, la finitezza e il limite, sono accompagnati dallo sguardo “pieno” della poesia, e concludendo con le parole della Zambrano, solo se la parola della poesia “è insieme pensiero, immagine, ritmo e silenzio…può recuperare l’innocenza perduta ed essere …parola creatrice”.

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Letizia Leone è autrice di numerosi libri di poesia e saggi critici. E’ ideatrice e curatrice di workshop di scrittura creativa. Come poetessa è stata segnalata al Premio Internazionale Eugenio Montale nel 1997. Nel 1998 è stata premiata al premio del Grande Dizionario della Lingua Italiana Salvatore Battaglia, UTET, To; e Premio Nuove Scrittrici, edizioni Tracce, Pescara (1998 e 2002). E’ stata premiata e segnalata in altri premi letterari, ultimo dei quali “I miosotìs” edizioni d’if, Napoli, segnalazione 2009 e 2010. 
Menzione d’onore per la Poesia inedita- Premio Lorenzo Montano 2011- Edizioni Anterem- Verona.

 

La mia dolce cenere / Moj slatki pepeo    

Autore: Monica Osnato
Traduzione: Duska Vrhovac
Editore: Prosveta (Serbia)
Anno 2012
pp. 157
formato 13×20
12,00 euro
ISBN 9788607019687

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