Efisio Cadoni su “Riguardo all’obbedienza – Poesie dal corpo” di Dona Amati

Ago 17, 2015 by

 

Fusibilia_Cover_Riguardo all'obbedienza 8 agosto solo primaEros, Bene e Bellezza. Il fàscino della disobbedienza

 

Ínsito in ogni èssere pensante, in ogni èssere umano, è il desiderio dell’indipendenza dal comando o, meglio, della libertà intesa come assoluta facoltà di cómpiere tutto ciò che soddisfà insieme spírito e corpo nella naturale umana, appunto, limitata onnipotenza che ci è concessa, ossía all’interno di una visione ètica della vita. Problema, questo, che s’affaccia anche nel cosiddetto mondo dell’arte e perciò della stessa poesía. Poesía e filosofía spesso si tòccano o, almeno, stanno vicine. La libertà è solo quella del bene. E il bene, che appartiene al pensiero ètico, s’identífica con il bello del mondo estètico. E questo è vero sia per i pensatori empírici, da Aristòtele a Bacone, per i quali nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu, sia per i razionalisti e intellettualisti, da Platone a Cartesio, che sostèngono le conoscenze “innate”, a priori, sia per i cosiddetti kantiani che metton d’accordo empirismo e razionalismo, sia per i filòsofi dell’idealismo come Berkeley (esse est percepi) e Benedetto Croce, per i quali c’è identità tra èssere e conóscere. Ecco, per tutti, anche per tutti quelli che penètrano nel problema ontològico e ne dànno sviluppo con il pensiero cristiano, come Sant’Agostino, con il concetto di Dio Creatore e Dio Provvidenza, e ancora per tutti quelli che s’interèssano del problema morale o pràtico e méttono a fuoco il “fine” dell’umano agire, ecco, per tutti questi Bene e Bellezza vanno di pari passo, vanno d’accordo, anzi, sostanzialmente, sono la medésima cosa. Per Platone, certamente, l’arte non ha niente che fare con la conoscenza, ma è pur sempre quell’attività umana che maggiormente s’avvicina al divino, con tutta la sua “ebbrezza” o “follía” che dir si voglia: essa è dono del Bene che è idea, forma, bellezza. L’arte è esperienza mística. E la filosofía, in parole pòvere, come si dice, non è ètica, política, física, metafísica, ecc… La filosofía non è “scienza del sapere”: è “eros”, amore, desiderio d’amore, ed è bellezza: filocalía, sofocalía, eroscalía, sempre Bellezza e Amore. La poesía, l’arte è, in un certo senso, cosí intesa, la “conoscenza universale”, il “ritmo” crociano, la nóesis o, piú esattamente, il desiderio di conoscenza. In verità l’arte, la poesía è solo desiderio, insoddisfazione che diviene finzione del sentimento vero. Il contenuto della poesía, le parole dei versi, la loro sintassi, sono la verità desiderata. Soddisfazione, bellezza e bene da raggiúngere.

Non c’è dunque differenza tra bello e buono, poiché Bellezza è anche Virtú. Le stesse parole “bonusbenus benulusbenlusbellus” signíficano già originariamente “bontà e bellezza”, quasi che la Bellezza venga generata dalla Bontà. Il verbo che si confà ai due concetti è senza dubbio “beare”. E quale beatitúdine súpera quella del Bene e della Bellezza, del Bene che è Bellezza?

E mi pare d’aver cosí letto e di lèggere dentro questo stupendo opúscolo, che è pure preziosa e raffinata storia d’amore in versi che io tento di cògliere nella mia interiorità proprio con questo mio attributo gerundivo con il quale mi preparo e mi riservo anche a una mia lettura futura, un tempus legendi cui destinerò il mio piacere, come dire, intellettuale. Perché di un tempo lungo, anzi lunghíssimo, anzi senza fine, necèssita ogni parola meditata, non certo la parola “vuota”, la parola della “vanitas”, della “ignavia” o, peggio ancora, “perniciosa”, quella che, in ogni caso, conduce alla rovina e alla morte.

Rilevo, infatti, come è bene che sia, in questa ricca sílloge d’amore, l’importanza della parola, elemento fondamentale, e l’importanza della volontà o, meglio, del líbero arbitrio, che è quella operazione razionale e, non solo, anche sentimentale e, in un certo senso, carnale, cioè determinata in buona parte dal nostro vívere corporale, che dà il potere all’èssere umano di scègliere liberamente tra due opposte vie da percórrere. L’una e l’altra lécite. Precisamente, per quanto síano l’una e l’altra lécite, cioè “permesse” dentro la sfera personale, proprio per il fatto che una scelta rappresenta la trasgressione, la disubbidienza e l’altra, invece, l’obbedienza a un precetto di vita, un insegnamento in forma di aut aut, un ultimatum che dura, invero, un’intera vita di coscienza, si esclúdono reciprocamente o, forse, s’identíficano, esprímono una medésima volontà di bene. Non perché male e bene si propòngano come estremi opposti e uguali, ma come differenti percorsi provvisòri verso un’única strada maestra in cui l’amore vero, quello della poesía in cui anche il corpo è parola e la carne è spírito, non può che raggiúngere l’Amore universale. In questo senso, il “licet” del líbero arbitrio somiglia un poco al “si può”, al “lice” nella risposta di Adone a Vénere, massimamente eròtica e perfino “morbosa” sua allettatrice (se ti prendi il mio core e il tuo mi dài, / perché dei corpi un corpo anco non fai?), come avrebbe scritto Croce, con tutte le conseguenze della decisione desiderata, nel poema del Marino:

Fa dunque, ànima nia –  l’altro le dice –

ch’io con vita immortal cangi la morte;

voli l’ànima al ciel sí che felice

sia degli etterni dei fatta consorte;

fa ch’io viva e ch’io mora e, se ciò lice,

fa ch’io riviva poi con miglior sorte.

Dolcemente languendo, all’istessa ora,

fa che ti viva in bocca e in sen ti mora.

   Certo è che la corrispondenza amorosa è pari, nell’uno e nell’altro. E qui, nei versi di Dona Amati, che trae dal proprio corpo, per poetare intorno al concetto di obbedienza, come propone e ci avverte già nel títolo, la risposta di Adone non è espressa e la sua onnipresenza necessaria è pur sempre un’assenza interlocutoria, ma è già tutta nel suo silenzio che ha nome Ugo, nella sua accondiscendenza d’uomo taciuta, nel suo “amore corrisposto”, come pone in risalto la poetessa. Sí, perché a scriver d’amore è un poeta al femminile, una poetessa che conosce l’arte del costruire il suo universo di parole che, qui, è anche un píccolo mondo oppure soltanto un tàlamo, una càmera, un’alcova senza cortine e senza segreti.

Ed ecco il mito, la parola del soprannaturale, la parola che spiega la nostra natura “umana”, la parola “alta”. L’altro è colui cui si deve gradita e grata obbedienza. Ora, gradualmente, è l’Hímeros, il Desiderio dei sensi, che spinge a donarsi in un passaggio per giúngere all’altro, secondo un ciclo di possessione in cui il mito-parola è “daimon”, divinità e destino, genio personale buono e/o cattivo o, fors’anche, demonio, l’incertezza fra vita e morte, Lílith, l’ingannatrice del giardino di Inanna del mito sumèrico, la ribelle prima moglie di Adamo del Talmúd, cacciata dal Paradiso terrestre, l’insaziàbile Lamia di voluttà, dichiaratamente sensuale, alla quale promette obbedienza. E l’amore è Photos, Luce che attrae a sé ed è, per lei, poetessa, ancora Desiderio. E l’amore è soprattutto Anteros, che è l’amore ricambiato, l’amore per l’amore, ma è anche il primo nemico dell’amore, l’opposto, l’anti-eros, pur rappresentàndone l’apex. A loro promette obbedienza.

La parola diventa tangíbile, concreta nella sua quasi materiale, carnale musicalità che dà peso, odore, suono persino all’amore: C’è solo pólvere che metto addosso / che addosso / stipo; Un’única cèllula rossa / s’addensa di noi / e appesantisce le tue mani / della sapienza fèmmina; oltre / l’último possesso del tuo odore; ché aver voglia d’amarti / è riconóscere un odore; il profondo líquido odoroso che ne deriva; l’accoglienza simultànea di tuoni nel corpo; forse senti / lo stridío dei sentimenti nei fogli / nuovi; ora ne arruffo le léttere; Siamo finestre socchiuse alle parole nuove / la trasparenza carnale degli accenti; le oscillazioni insonni / dell’osmosi viva / del sesso sonoro; tutta per intero la poesía dedicata a Ugo Magnanti; persuadere la nuova fame / al peccato sonoro / del bacio.

La sottomissione a Lilith, la dichiarazione poètica di obbedienza totale è quasi un cedimento al corpo da cui viene l’ispirazione, una sottomissione a tutto il suo corpo ispiratore che, qui, è parola, fonte perenne cui attinge Dona Amati, si chiami pure Lilith, parola che viene dal corpo parte integrante dell’uomo e della donna su cui lo spírito si regge, parola cui lei deve obbedienza, parola alla quale, come scrive nella sua prefazione Rino Caputo, è “sempre dòcile e pronta”. Ciò perché lei non è poeta per caso, non scrive solo da poeta. Scrive perché è poetessa davvero, poetessa ispirata. È vera poetessa che obbidisce alla parola affinché la parola obbedisca alla sua volontà: un volo ut vis, un facio ut facias. Desídero e faccio perché tu voglia e faccia. Dà tutta la sua obbedienza a Lilith-mito-parola perché essa contraccambi alla sua esigenza poètica, che è essenzialmente un’esigenza spirituale di comunicazione d’emozioni, di sentimenti, di passione, di vitalità: un atto d’amore. Un’ascensio per il Parnaso dei Cieli, una descensio ad inferos. Per gradi. Fino a raggiúngere il totale completamento, la fusione, perché l’uno sia degno dell’altra e versa vice. L’obbedienza è anche disobbedienza.

Si ritorna verso il mito che è piacere e conoscenza e bellezza infinita. La parola, per lei, poetessa, è voce e segno del suo “èssere compiuta”, come ci rivela, come donna e poeta, poetessa appunto perché oggi, con questa sua compiuta òpera di “Poesíe dal corpo” di “Riguardo all’obbedienza”, cosí si presenta. Vi è dentro un coro di voci dell’umanità che ama, dell’umanità amante e amata. Ce lo ricorda Letizia Leone, nella sua conclusiva postfazione. Vi è l’amore per obbedienza all’amore, qui, dove la parola va oltre la parola, oltre il suo significato che è o appare quello del suo preciso significante. Lo súpera e trascende.

Il suo libro di versi è un moderno Càntico di Sulamite, il càntico del desiderio d’amore in cui il corpo è parte integrante dell’èssere umano, il cui destino è legato all’amore dall’Amore stesso, da cui nasce e a cui tende. Che altro poteva dirci, Dona Amati, riguardo all’obbedienza?

 

Villacidro, 16 agosto 2015

Efisio Cadoni

 

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Efisio Cadoni nasce a Villacidro il 13 luglio del 1943 (all’anagrafe è registrato il 14). Ha lasciato la facoltà di Giurisprudenza, dopo aver superato tredici esami, e ha viaggiato a lungo in Europa. Sposato. Cinque figli. Ha fatto vari lavori: l’insegnante di Lettere per tre anni e mezzo, il venditore di scarpe, il rappresentante di cosmetici, l’assicuratore, il tessitore, lo strumentista, l’ausiliario, il segretario di reparto, l’impiegato statale. Ha collaborato con diversi giornali fin dagli anni Sessanta. Da sempre scrive, dipinge e scolpisce. Sue opere di pittura e di scultura si trovano in diversi paesi, musei, collezioni púbbliche e private. Il suo primo libro di poesía, Eden e oltre, risale al 1966. Poi altre venti pubblicazioni in versi e in prosa, fino alla piú recente La grammàtica in piazza, Fonología e Morfología, del 2009,  Cogas, Repertorio del quotidiano o quasi, Tre glossarietti e, in versi, Quando ancora era buio.

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